Possiamo mangiare pesce in modo sostenibile?

Team Will Media
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#Consumo critico

Il 20 e il 30% degli stock ittici del Pianeta è sovrasfruttato e oltre il 60% è pescato al limite delle capacità biologiche

Negli ultimi anni sono diventati sempre più evidenti i danni ambientali di una pesca industriale che si comporta come un predatore insaziabile e che invece di fermarsi quando una specie scarseggia, ci specula su.

Da un punto di vista ambientale, la pesca è considerata sostenibile se consente ad una popolazione di pesce di rimanere costante e in equilibrio; in altre parole se si pesca la quantità di pesce che quella popolazione riuscirà a ripopolare in un anno.

Oggi, però, il 75% degli stock ittici del Mediterraneo è pescato in modo insostenibile. Ma la pesca, nei nostri mari, potrebbe mai diventare sostenibile?

A partire proprio dalla pesca del tonno, il cosiddetto “oro rosso”, la nostra Silvia Lazzaris prova a rispondere a questa domanda cercando di capire in che modo noi consumatori siamo parte del problema – e della soluzione.

Il dibattito sulla pesca intensiva

Il dibattito riguardo la pratiche di pesca intensive e insostenibili, soprattutto da un punto di vista ambientale, sono spesso alimentate dai dati forniti dalle Nazioni Unite. Prima fra tutti la FAO, secondo cui tra il 20 e il 30% degli stock ittici del Pianeta è sovrasfruttato e oltre il 60% è pescato al limite delle capacità biologiche.

Questo dibattito si è riacceso ancora di più dopo la pubblicazione di “Seaspiracy“, il documentario di Netflix che si sofferma sugli aspetti più problematici dell’industria della pesca. Secondo gli autori del documentario la pesca industriale sta portando al collasso dell’attuale sistema di pesca globale.

Al netto del successo che ha avuto il documentario, c’è anche chi critica l’uso di alcuni dati e la soluzione offerta per risolvere i problemi ambientali e sociali legati al consumo di pesce.

La nostra Silvia Lazzaris ci racconta quali sono state le inesattezze più importanti di Seaspiracy, cercando di capire se sono state sufficienti a delegittimare il valore del documentario e del suo messaggio.

 

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Un anno dopo Seaspiracy

Dopo la pubblicazione del documentario Seaspiracy, secondo il Future Food Institute per European Institute of Innovation and Technology, il 16% dei partecipanti che hanno preso parte ad uno studio finanziato dall’Unione Europea,  ha dichiarato di non voler più mangiare pesce più di una volta a settimana dopo aver visto Seaspiracy.

Come abbiamo raccontato sul nostro libro Politica Netflix, questo documentario è un chiaro esempio di una presa di posizione da parte di soggetti non politici su temi che solitamente non arrivano al grande pubblico. Raccontiamo la storia più completa in questo loop.

Nelle prime settimane dalla sua uscita il film, infatti, è arrivato nella top 10 di più di 50 Paesi, e dopo pochi mesi più di 900 mila persone firmano la petizione degli autori del film per chiedere ai governi di creare più aree marine protette.

E questa richiesta, in parte, ha contribuito a far sì che i leader di Colombia, Costa Rica, Ecuador e Panama abbiano trovato un accordo alla COP 26 per creare la più grande area marina protetta dell’emisfero occidentale e proteggere una delle aree più importanti al mondo per la biodiversità. Si chiama “Eastern Tropical Pacific Marine Corridor” e nascerà nel Pacifico tra Colombia, Costa Rica, Ecuador e Panama. Alcune parti di questa area protetta consentiranno soltanto certi tipi di pesca e solo per certi tipi di specie.

Cosa possiamo fare noi consumatori

Sentiamo sempre più parlare di filiera trasparente e tracciabilità. Noi consumatori, infatti, possiamo contribuire a salvaguardare la salute del nostro Oceano ed evitare che le specie animali arrivino al punto di sovrasfruttamento. E sono tanti gli accorgimenti che ci aiutano in questo caso, primo fra tutti leggere le etichette.

Ecco perché abbiamo creato una guida al consumo responsabile di pesce, che può aiutarci a compiere una scelta più giusta per l’ambiente e le persone.

 

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