Il fast fashion: perché i vestiti a basso costo sono un problema?
Il fast fashion aumenta i guadagni con una produzione veloce e a prezzi bassissimi. Ma questo provoca conseguenze sociali e ambientali
Il fast fashion o “moda istantanea”, indica il settore dell’abbigliamento che produce capi di bassa qualità a prezzi ridotti, con la veloce disponibilità di nuovi vestiti e collezioni in continuo assortimento.
Il termine è stato utilizzato per la prima volta nel 1989 dal New York Times in un articolo in cui si parlava della prima apertura di un negozio Zara a New York.
La fast fashion di cui sentiamo tanto parlare oggi si fonda su un sistema produttivo velocissimo e il suo boom è relativamente recente: questa strategia si è diffusa tra i maggiori retailer del mercato della moda a partire dal 2000 e tra il 2010 e il 2015 le aziende fast fashion sono cresciute del 9,7%. La strategia che accomuna tutte le aziende di questo mercato è aumentare i guadagni grazie ad una produzione veloce e a prezzi bassissimi, che avviene in Paesi in via di sviluppo caratterizzati da bassi controlli e costi della manodopera.
I salari dei lavoratori rappresentano solo una piccolissima parte di ciò che i consumatori pagano per i vestiti a causa di dinamiche di potere strutturali, profondamente radicate. Il diritto a un salario dignitoso e minimo e a lavorare in un ambiente sano sono stati riconosciuti, tra gli altri, dal Consiglio d’Europa e dalle Nazioni Unite nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ma non sono rispettati nelle filiere produttive globali, anche dove sono in vigore salari minimi stabiliti per legge, come in Bangladesh o in Cina.
I costi umani sono importanti: pensiamo per esempio al Rana Plaza in Bangladesh nel 2013, dove per il crollo di una fabbrica di abbigliamento per marchi fast fashion sono morti più di mille operai.
Sappiamo che probabilmente, da qualche parte, i diritti di alcuni lavoratori sono stati negati per produrre le magliette che compriamo nei negozi. Ma i dettagli della storia sono tanto sfocati e distanti da noi da farcene dimenticare. Il problema è che le filiere produttive dei nostri vestiti sono talmente lunghe e opache che creano un intorpidimento morale.
L’antidoto è conoscere più a fondo la storia dei nostri prodotti. Il Fashion Transparency Index del 2020, compilato da accademici e organizzazioni non governative, ha analizzato l’operato dei più grandi 250 marchi globali di vestiti sulla base di più di 200 indicatori. La gamma di indicatori va dall’impatto climatico e ambientale a questioni sociali come le condizioni di lavoro, la libertà di associazione, la parità di genere e la trasparenza sui fornitori.
Il rapporto ha rivelato che mentre la maggior parte dei brand ha migliorato molto la propria trasparenza su temi come corruzione, discriminazione, spreco energetico ed emissioni di gas serra, non c’è pressoché alcuna trasparenza sulle condizioni dei lavoratori. Si sa pochissimo su salari, termini dei contratti di lavoro, licenziamenti e provvedimenti disciplinari, orari lavorativi e durata delle pause concesse ai lavoratori. Meno di un quinto dei brand è riuscito a spiegare come i propri fornitori, che spesso hanno sede in mercati emergenti, applichino i codici di condotta della compagnia.
Il 93% dei più grandi brand di abbigliamento impiega migliaia di persone provenienti da Bangladesh, India, Cina, Indonesia e altri mercati emergenti per la manodopera. Ma a queste persone non viene garantito un pagamento sufficiente per vivere nel proprio Paese.
Un primo passo per risolvere il problema è cercare di comprare in modo più consapevole: cioè meno, di seconda mano, scegliendo quei brand che operano in modo virtuoso.
Per scoprire quali brand meritano la nostra fiducia, possiamo scrivere direttamente alle aziende chiedendo di condividere più informazioni come i nomi e gli indirizzi dei fornitori, i tipi di servizi svolti da ogni fornitore, se i fornitori hanno un sindacato, e la percentuale di lavoratori migranti o con un contratto temporaneo.
In altre parole: chiedere più trasparenza alle aziende, che non vuol dire soltanto avere più elementi per fare la nostra scelta, ma anche incentivarle a tenere in considerazione le nostre priorità.
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Ogni anno introduciamo nel mondo più di 100 miliardi di nuovi capi di abbigliamento, e ogni secondo un camion pieno di tessuti è bruciato o buttato in discarica, dove nella maggior parte dei casi impiegherà più di un secolo per biodegradarsi.
Nel mondo oggi acquistiamo più di 80 miliardi di nuovi capi d’abbigliamento ogni anno: 6 volte di più rispetto a quanto consumavamo negli anni ’90 e solo negli ultimi 15 anni la produzione è raddoppiata. Acquistiamo di più, usiamo il capo qualche volta per poi stancarci e gettarlo via: secondo Clean Clothes Campaign nei Paesi occidentali in media ogni persona porta solo il 70% dei capi che ha nel guardaroba e produce 70Kg di rifiuti tessili l’anno, che rappresentano il 5% dei rifiuti globali.
Ma, come dicevamo, i costi nascosti del nostro abbigliamento non sono solo legati agli sprechi, ma riguardano anche l’ambiente. Grande responsabilità le ha il mercato del fast fashion, l’industria dell’abbigliamento che produce collezioni ispirate all’alta moda, rinnovate in tempi brevissimi e vendute a prezzi bassi.
Ma come nasce l’industria dei vestiti a basso costo? E perché è un problema? Con Silvia Lazzaris scopriamo la storia del fast fashion.