A che punto siamo con l’inclusione femminile nel mondo del lavoro?
Se l’occupazione femminile arrivasse al 60%, il PIL italiano crescerebbe di 7 punti percentuali
Barriere culturali, mancanza di investimenti in formazione e strutture a supporto della famiglia. Sono solo alcuni dei motivi per cui la partecipazione delle donne al mercato del lavoro in Italia è più bassa rispetto a quella degli uomini e degli altri grandi Paesi europei. A dimostrarlo è il punteggio dell’indice di uguaglianza di genere assegnato dall’European Institute for Gender Equality all’Italia: 63,8 punti su 100 nel 2021, siamo al 14esimo posto sui 27 Stati Ue.
La mancanza di imprenditorialità femminile secondo il Global Entrepreneurship Monitor limita la creazione di posti di lavoro, innovazione, generazione di reddito, disponibilità di nuovi prodotti e servizi e tutti gli altri benefici che le nuove imprese portano all’economia e alla società.
Grazie al PNRR si dovrebbe investire circa il 20% del totale delle risorse – cioè 38,5 miliardi di euro – per ridurre il gender gap. Ma basteranno?
Nel PNRR, partendo proprio dalle stime della Banca d’Italia secondo cui se l’occupazione femminile salisse al 60%, il PIL italiano crescerebbe di 7 punti percentuali, si calcola che entro il 2023 questo aumento avverrà. L’occupazione femminile, infatti, dovrebbe crescere a tal punto da arrivare vicina al 60% fissato da Banca d’Italia, ma ancora troppo lontano dal tasso di occupazione maschile al 72,6%. Nei primi mesi del 2022, però, secondo le stime più recenti dell’INPS, il tasso di occupazione femminile raggiunge il 51,2%.
Alcuni primi passi però si stanno compiendo: lo scorso anno è stata approvata la legge sulla parità salariale ed è aumentato il congedo di paternità. Ma ancora non basta. La parità di genere è uno dei principi cardine dell’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, e viene inserita nei 17 Sustainable Development Goals (SDGs) per il 2030 e l’Italia deve dimostrare più degli altri Paesi in questo processo di trasformazione del mercato del lavoro in termini di uguaglianza, innovazione e parità.
L’Italia è ancora al 14esimo posto nella classifica del Gender Equality Index dello European Institute for Gender Equality e la strategia nazionale del governo per la parità di genere deve osare molto di più. Non bastano infatti gli investimenti: bisogna abbattere tutte le barriere che impediscono di coniugare lavoro e famiglia, creare un mondo del lavoro più equo e competitivo e infine superare le barriere culturali e gli stereotipi di genere.
In Italia ancora troppo spesso le donne si trovano costrette a scegliere tra lavoro e famiglia. Ecco qui alcuni dati per capire i perché:
- Le donne hanno ancora troppe responsabilità nelle cure domestiche familiari. E quando tentano di iscrivere i loro figli agli asili nido, si scontrano con una seria difficoltà: liste di attesa infinite.
- Iscrivere i propri figli agli asili nido è infatti sempre più complesso. Ad oggi solo il 25,5% dei bambini riesce ad accedere ai servizi per la prima infanzia, sia pubblici che privati.
Il tasso di occupazione dei genitori italiani cambia – e di molto – in base al sesso:
- L’impatto del Covid-19 e la crisi della pandemia hanno prodotto conseguenze molto più pesanti per le donne rispetto agli uomini. Come riporta l’ISTAT:
- nel 2020 il numero di donne che hanno smesso di lavorare è stato più del doppio degli uomini
- nel 2021 dei 390 mila nuovi occupati in Italia, il 70% erano uomini
- Secondo l’Ispettorato nazionale del lavoro solo nel 2020 ci sono state 42 mila dimissioni di genitori con figli fino a tre anni. Il 77% di questi 42 mila erano donne.
Davanti a questa sfida non solo sociale, ma anche economica, i soldi stanziati dal PNRR per ridurre il gender gap si concentreranno principalmente su lavoro e imprenditorialità femminile e gli asili nido e scuola dell’infanzia.
Ma per eliminare il divario di genere non bastano i fondi, serve un vero cambiamento culturale.
In tutta Italia la nascita di un figlio cambia molto di più la vita professionale di una donna rispetto a quella di un uomo e il titolo di studio fa la differenza: secondo uno studio de Il Sole 24 ore, sono occupate otto madri laureate su dieci contro poco più del 34% di quelle con titolo di studio pari o inferiore alla licenza media.
Al sud la situazione è particolarmente grave: il divario del tasso di occupazione va dall’81,4% delle madri laureate nel Nord a un minimo di 17,1% delle madri del Mezzogiorno con basso titolo di studio.
Inoltre, secondo Eurostat, nell’anno della pandemia il tasso di occupazione femminile è stato in media in Europa del 62,4%, ma il tasso in tre regioni italiane si è attestato intorno al 30% con la Puglia in calo al 32,8%, la Campania al 28,7%, la Calabria al 29% e la Sicilia al 29,3%.
Secondo i dati ISTAT nel Mezzogiorno una madre su cinque non ha mai lavorato.
L’Italia è il penultimo Paese dell’Unione europea per quota di laureati (1 su 3), ben più bassa della media europea (quasi 1 su 2). Quando si guarda poi alle materie STEM, cioè i percorsi di studio per materie scientifiche, tecnologiche, di ingegneria e matematica, l’Italia è ancora più indietro, con solo 1 laureato ogni 1.000 (contro 2 su 100 in Europa).
Il numero di laureati segue le immatricolazioni e nonostante l’Italia rimanga al di sotto della media europea, in valore assoluto, il numero di matricole triennali Stem è aumentato e soprattutto grazie alle studentesse. Le ragazze iscritte a un corso Stem rimangono comunque in minoranza: se a livello europeo il percorso tecnico-scientifico è scelto da 1 donna su 3, in Italia è preferito solo da 1 donna su 5.
Come evidenzia anche il 2021 Global Gender Gap Report del World Economic Forum, l’Italia quando si tratta di divario di genere è posizionata al 63esimo posto su 156 Paesi, dopo Bolivia e Peru.
Complice è anche il divario occupazionale post-laurea: infatti, a un anno dalla laurea, il tasso di occupazione degli uomini laureati in corsi Stem (91,8%) è più elevato di quello delle donne (89,3%), e il divario si presenta anche a livello salariale.
Questo imbuto nel passaggio al mondo del lavoro è ancora più evidente guardando alle materie Ict (Information and communications technology), un sottoinsieme delle materie Stem. A livello europeo, su 1.000 donne 24 si specializzano in materie Ict, ma solo 6 perseguono poi una carriera nei relativi settori; ciò significa che per una donna è otto volte meno probabile avere un ruolo tecnico nel settore digitale rispetto a un uomo con lo stesso livello di educazione.
In questo video la nostra Luna ci racconta perché il divario di genere è particolarmente elevato in alcuni dei campi in più rapida crescita come informatica e ingegneria:
Visualizza questo post su Instagram
Dal 2026 almeno il 40% dei posti nei consigli d’amministrazione delle società europee quotate in borsa dovrà essere garantito al “genere sotto-rappresentato”. Con questo accordo politico raggiunto tra Consiglio e Parlamento europeo n, l’Unione europea punta a garantire una rappresentanza di genere ai vertici delle aziende europee.
Nella pratica, stando ai numeri attuali, significa che le aziende europee dovranno garantire un maggior numero di incarichi alle donne: al momento infatti, soltanto la Francia raggiunge una quota di almeno il 40% di donne nei CdA delle proprie aziende quotate.
L’accordo approvato prevede che a partire dal 2026 almeno il 40% dei posti nei consigli di amministrazione delle aziende europee quotate in borsa dovrà essere occupato dal ”genere meno rappresentato” o in alternativa che il 33% delle posizioni esecutive e non del consiglio sia occupato da donne.
L’obiettivo sarà legalmente vincolante, e di conseguenza le autorità nazionali responsabili dell’applicazione della direttiva avranno la facoltà di multare le aziende che non raggiungono l’obiettivo ed eventualmente annullare alcune nomine. Le misure però non si applicheranno alle aziende con meno di 250 dipendenti.
Secondo l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere, a ottobre 2020 la quota di donne nei consigli di amministrazione delle principali società quotate in borsa era del 29,5%. Sono solo 7 gli Stati che al momento prevedono una percentuale minima per il genere sotto-rappresentato, tra cui anche l’Italia che già prevede la quota del 40% dal 2019.
L’iter per raggiungere l’accordo sulla proposta di legge è stato lungo 10 anni: la prima proposta in questo senso da parte della Commissione risale al 2012.
In questo episodio di Actually il nostro Riccardo Haupt, intervista la prof.ssa Lusardi per approfondire il tema del gender gap in Italia e l’importanza della presenza femminile nel mondo economico e finanziario. Come può l’educazione finanziaria contribuire a migliorare la situazione nel nostro Paese?
Global Gender Gap Report 2020, World Economic Forum
➡ Scopri qui tutti i nostri contenuti a tema lotta alle disuguaglianze e women empowerment⬅